Jean-Baptiste Greuze, Le petit paresseux, 1755
Nei primi anni delle elementari c'era una bambina a cui tenevo la mano, all'intervallo. Tanto bastava perché l'uno per l'altra si potesse qualificare rispettivamente come "il fidanzatino" e "la fidanzatina".
Forte del titolo altisonante - e poco chiaro per entrambi -, durante l'intervallo, a volte le portavo le margherite che crescevano a mazzetti tra lo scivolo e l'altalena nel giardino della scuola; avevo acquisito il diritto di sederle accanto alla mensa e talvolta ci scambiavamo bacetti sulle guance come i grandi.
Ma era il tenerci la mano, gesto prolungabile a piacere, che dava occasione all'uno o all'altra di inciampare in qualche discorso tipico di bambini che fantasticano di avere bambini o di piccoli adulti che idealizzano di adulti sempre piccoli, interessati a macchine che avrebbero dovuto avere grossi pulsanti rossi accanto al volante e seggiolini di dietro o case immense con giardini pieni di fontane e cani e gatti e dinosauri.
Poi capitava anche che, di quando in quando, ci guardassimo attorno, un po' spaesati. Io mi distraevo, e credevo lei facesse altrettanto. Calava il silenzio, ma continuavamo a tenerci la mano.
Non si trattava del silenzio imbarazzato tra chi non ha più voglia di esporsi - perlopiù una prerogativa dei grandi -, ma quello stralunato dell'infanzia.
Il fatto, però, è che non era vero che si distraeva. No, affatto. Lei aveva questa abitudine dolce, e testarda, e puntigliosa come solo il gusto d'un bambino può essere. Ebbene, quando non parlavo, saltava su e chiedeva sempre (sempre!):
« A cosa stai pensando? »
Come se pensassi a qualcosa in ogni momento!
A volte, a rigor di cronaca, l'intervallo scolastico trascorreva senza nemmeno un pensiero deciso. La matassa in testa mi si aggrovigliava con leggerezza, perché gli occhi erano catturati da un pezzo colorato di cortile e le orecchie da suoni qualunque. Capitava che non indugiassi su niente, che non focalizzassi l'attenzione su qualcosa in particolare e che invece soprassedessi su tutto.
Ma lei credeva io macinassi ad ogni respiro nuove idee.
« A cosa stai pensando? », diceva lei, come a volermi cogliere in fallo, trovarmi disattento, nel suo gioco del silenzio interrotto.
La prima volta non risposi subito. La verità è che non sapevo affatto cosa rispondere. Al mio mutismo prolungato lei fece seguire l'osservazione stringente: « Dai, non è possibile che non stai pensando a niente ».
Non volevo dargliela vinta, perché non mi credevo uno stupido come quelli dell'altra sezione. Scelsi allora un pensiero a caso, che doveva certamente essere stupido, ma lei parve accontentarsi.
Alla domanda fatale sul cosa pensassi insomma, all'inizio, zoppicai piuttosto malamente nell'esposizione. Indicavo di volta in volta poco definibili pensieri sui giochi del giardinetto della scuola; oppure buttavo lì un nome scelto tra quelli dei nostri amici - « Oh, no, niente, pensavo a Maddalena... », ah, beata infanzia senza malizia! -; a volte facevo finta di riflettere sulla merenda che stavo mangiando, sui cartoni animati che avrei guardato e su quali personaggi sarei diventato - o di quali avrei preso il posto.
Poi però sviluppai una certa abilità nella risposta, che doveva essere ovviamente il più veloce possibile, perché non è che un pensiero che stai pensando deve venirti in mente. Dovresti averlo già lì, in testa.
A lei piaceva così tanto sentirmi parlare, o inventare. Le piaceva così tanto che poi venne a piacere pure a me.
Ora non le tengo più la mano, e non le porto più le margherite. Non so nemmeno dove sia, adesso, quella bambina dai capelli lunghi. Spero abbia un grosso giardino con cani e dinosauri, ed un seggiolino sul sedile posteriore dell'auto.
E sicuro però che, da allora, per quel che fu forse solo una curiosità di bambina, un gioco o una prova, quando faccio silenzio o quando sono solo, non m'è più capitato di non pensare a niente.
§Johan Razev§

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