lunedì 9 marzo 2015

Farsi capitare un destino

Théophile-Alexandre Steinlen, Tournée du Chat Noir, 1896. Litografia a colori, 40 × 62 cm, Museo Van Gogh, Amsterdam.


Non era certo un gatto qualunque.
Non si sentiva speciale per qualche merito, o per qualche destino specifico che potesse individuarlo in mezzo alla società felina, ma pure gli altri glielo dicevano spesso: “Non sei un gatto qualunquemiao.” Loro avevano questa abitudine di miagolare alla fine delle frasi.
Lui ci pensò a lungo, cercando in sé qualche carattere che potesse dare un senso all'espressione. Invece niente. Si sentiva anzi potenzialmente mediocre. Passava le sue giornate a leccarsi le zampe e la coda, cercando del cibo agli angoli della recinzione, e talvolta perorando la causa della sua famiglia (brutta storia, questa) al Consiglio dei Gatti del Recinto. Si chiamava Miamao. I suoi miagolii erano bassi, spesso più bassi di quelli dei suoi coetanei. In pochi infatti riuscivano a sentirlo, anche al Consiglio.
Una esistenza piuttosto povera.
Ogni tanto, qualche spelacchiato da oltre la rete gettava sull'erba pezzi di carne; a volte entrava addirittura per lasciare ciotole piene di pezzetti croccanti e molto saporiti.
Gli spelacchiati, sì. Creature immense, che si coprivano con stoffa che non era il loro pelo (li aveva visti, Miamao, d'estate, come sono sotto) e parlavano una lingua articolata, piena di così tante sonorità da lasciare interdetti. Chissà quante cose si dicevano, con quel linguaggio che pareva sempre diverso. Forse erano creature che non sapevano ripetersi, costrette a dirsi ogni volta qualcosa di nuovo.
A Miamao, però, nonostante il rispetto del buon gatto nei confronti di chi gli porta da mangiare, quelle creature stavano antipatiche. Proprio antipatiche. Si comportavano come fossero i loro padroni, ma tutti sanno che i gatti non hanno padroni. Hanno semmai mamme. E basta. I papà non li considerano nemmeno.
Quegli spelacchiati, invece, erano convinti di poterli tenere con sé a forza.
Capitava addirittura che qualcuno di loro entrasse nel recinto, prendesse uno degli altri e lo portasse chissà dove. C'era perfino chi pensava fossero mangiatori di gatti. Ma loro vivevano lì da sempre, ed erano comunque poco propensi ad ipotizzare per natura. Miamao li trovava antipatici, dunque, ma come gli altri non si faceva poi molte domande. Li lasciava fare. Li guardava incuriosito, ed intimamente all'erta, casomai facessero qualche movimento avventato, o qualche gesto minaccioso. - Un gatto qualunquemiao.. - disse fra sé, in una giornata d'inverno non particolarmente fredda, mentre guardava le ciotole vuote.
Quel pensiero gli aveva riempito la testa, quasi come se avesse palle di pelo anche nel cervello che non riusciva a sputare fuori. La sua mediocrità era diventata la prova inconfutabile che la sua mamma sbagliava. Ma le mamme non sbagliano, anche quando ti danno una zampata sul muso e tu devi stare fermo per non prenderne altre.
Il rumore del cancelletto che si apriva lo riportò alla realtà: uno spelacchiato entrava assieme ad una piccola spelacchiata. Era raro vederne di cucciole. Quella lì portava capelli rossi che quasi si sarebbe potuto dire avesse il capo del Consiglio, Miaomo, in testa, anche se ormai Miaomo era vecchio e sporco ed il suo pelo rosso non era più altrettanto bello.
La cucciola di spelacchiato girava mano nella mano con quello più grande e guardava i gatti con meraviglia, come se non ne avesse mai visto uno. Forse era così. Alzò un braccio, abbassando il viso a terra e parlò. Miamao non la trovava antipatica. Il suono della sua voce era dolce, un po' stridulo forse, ma dolce. Ed il braccio era alzato nella sua direzione. Il ditino rosa lo indicava.
Fece per correre via, nel momento in cui lo spelacchiato più alto si mosse. Ma poi decise di avvicinarsi, quando questi si piegò sfregando le dita della mano. Forse voleva dargli qualcosa da mangiare, pensò (anche se in quella trappola da quattro soldi era già caduto svariate volte). Sempre ben attento, zampettò fino ad arrivare a pochi centimetri da quell'arto nudo. Si sentì afferrare da dietro la testa e senza provare dolore finì in braccio alla piccola spelacchiata. Questa iniziò a passargli le dita sulla testa. Erano carezze. Un po' goffe, ma a Miamao ricordavano le leccate della sua mamma. Iniziò a fare le fusa. Senza vergogna. E si sentiva bene.
- Miamao -, si presentò.
Solo in quel momento, dopo tanto tempo, afferrò intimamente cosa significasse non essere un gatto qualunque. Era stato scelto, unico fra tanti. Non Miaomo, né Memamao. Proprio lui.
E come si fa ad essere uno qualunque quando sei l'unica creatura del recinto tra le braccia deboli e gracili, ma calde, di quella cucciola? Uscì attraverso il cancelletto, dondolando contro il petto di quell'esserino e continuando a fare le fusa. Non vi tornò più.
Ora vive insieme a quella bambina (si chiamano così le cucciole di spelacchiati). Lei lo chiama Bertoldo, e lui continua a ripeterle “Miamao”, ma è una piccola incomprensione sulla quale il gatto può soprassedere.
(Michel De Fin, Martelli Sognanti, Parigi, 1958)

§Johan Razev§

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