Barry Godber, per l'album In the Court of the Crimson King, King Crimson, 1969
Non sei
Quello che hai.
Quello che sei
E' tutto ciò che hai.
§Johan Razev§
lunedì 9 marzo 2015
Il Gioco del Silenzio
Jean-Baptiste Greuze, Le petit paresseux, 1755
Nei primi anni delle elementari c'era una bambina a cui tenevo la mano, all'intervallo. Tanto bastava perché l'uno per l'altra si potesse qualificare rispettivamente come "il fidanzatino" e "la fidanzatina".
Forte del titolo altisonante - e poco chiaro per entrambi -, durante l'intervallo, a volte le portavo le margherite che crescevano a mazzetti tra lo scivolo e l'altalena nel giardino della scuola; avevo acquisito il diritto di sederle accanto alla mensa e talvolta ci scambiavamo bacetti sulle guance come i grandi.
Ma era il tenerci la mano, gesto prolungabile a piacere, che dava occasione all'uno o all'altra di inciampare in qualche discorso tipico di bambini che fantasticano di avere bambini o di piccoli adulti che idealizzano di adulti sempre piccoli, interessati a macchine che avrebbero dovuto avere grossi pulsanti rossi accanto al volante e seggiolini di dietro o case immense con giardini pieni di fontane e cani e gatti e dinosauri.
Poi capitava anche che, di quando in quando, ci guardassimo attorno, un po' spaesati. Io mi distraevo, e credevo lei facesse altrettanto. Calava il silenzio, ma continuavamo a tenerci la mano.
Non si trattava del silenzio imbarazzato tra chi non ha più voglia di esporsi - perlopiù una prerogativa dei grandi -, ma quello stralunato dell'infanzia.
Il fatto, però, è che non era vero che si distraeva. No, affatto. Lei aveva questa abitudine dolce, e testarda, e puntigliosa come solo il gusto d'un bambino può essere. Ebbene, quando non parlavo, saltava su e chiedeva sempre (sempre!):
« A cosa stai pensando? »
Come se pensassi a qualcosa in ogni momento!
A volte, a rigor di cronaca, l'intervallo scolastico trascorreva senza nemmeno un pensiero deciso. La matassa in testa mi si aggrovigliava con leggerezza, perché gli occhi erano catturati da un pezzo colorato di cortile e le orecchie da suoni qualunque. Capitava che non indugiassi su niente, che non focalizzassi l'attenzione su qualcosa in particolare e che invece soprassedessi su tutto.
Ma lei credeva io macinassi ad ogni respiro nuove idee.
« A cosa stai pensando? », diceva lei, come a volermi cogliere in fallo, trovarmi disattento, nel suo gioco del silenzio interrotto.
La prima volta non risposi subito. La verità è che non sapevo affatto cosa rispondere. Al mio mutismo prolungato lei fece seguire l'osservazione stringente: « Dai, non è possibile che non stai pensando a niente ».
Non volevo dargliela vinta, perché non mi credevo uno stupido come quelli dell'altra sezione. Scelsi allora un pensiero a caso, che doveva certamente essere stupido, ma lei parve accontentarsi.
Alla domanda fatale sul cosa pensassi insomma, all'inizio, zoppicai piuttosto malamente nell'esposizione. Indicavo di volta in volta poco definibili pensieri sui giochi del giardinetto della scuola; oppure buttavo lì un nome scelto tra quelli dei nostri amici - « Oh, no, niente, pensavo a Maddalena... », ah, beata infanzia senza malizia! -; a volte facevo finta di riflettere sulla merenda che stavo mangiando, sui cartoni animati che avrei guardato e su quali personaggi sarei diventato - o di quali avrei preso il posto.
Poi però sviluppai una certa abilità nella risposta, che doveva essere ovviamente il più veloce possibile, perché non è che un pensiero che stai pensando deve venirti in mente. Dovresti averlo già lì, in testa.
A lei piaceva così tanto sentirmi parlare, o inventare. Le piaceva così tanto che poi venne a piacere pure a me.
Ora non le tengo più la mano, e non le porto più le margherite. Non so nemmeno dove sia, adesso, quella bambina dai capelli lunghi. Spero abbia un grosso giardino con cani e dinosauri, ed un seggiolino sul sedile posteriore dell'auto.
E sicuro però che, da allora, per quel che fu forse solo una curiosità di bambina, un gioco o una prova, quando faccio silenzio o quando sono solo, non m'è più capitato di non pensare a niente.
§Johan Razev§
Nei primi anni delle elementari c'era una bambina a cui tenevo la mano, all'intervallo. Tanto bastava perché l'uno per l'altra si potesse qualificare rispettivamente come "il fidanzatino" e "la fidanzatina".
Forte del titolo altisonante - e poco chiaro per entrambi -, durante l'intervallo, a volte le portavo le margherite che crescevano a mazzetti tra lo scivolo e l'altalena nel giardino della scuola; avevo acquisito il diritto di sederle accanto alla mensa e talvolta ci scambiavamo bacetti sulle guance come i grandi.
Ma era il tenerci la mano, gesto prolungabile a piacere, che dava occasione all'uno o all'altra di inciampare in qualche discorso tipico di bambini che fantasticano di avere bambini o di piccoli adulti che idealizzano di adulti sempre piccoli, interessati a macchine che avrebbero dovuto avere grossi pulsanti rossi accanto al volante e seggiolini di dietro o case immense con giardini pieni di fontane e cani e gatti e dinosauri.
Poi capitava anche che, di quando in quando, ci guardassimo attorno, un po' spaesati. Io mi distraevo, e credevo lei facesse altrettanto. Calava il silenzio, ma continuavamo a tenerci la mano.
Non si trattava del silenzio imbarazzato tra chi non ha più voglia di esporsi - perlopiù una prerogativa dei grandi -, ma quello stralunato dell'infanzia.
Il fatto, però, è che non era vero che si distraeva. No, affatto. Lei aveva questa abitudine dolce, e testarda, e puntigliosa come solo il gusto d'un bambino può essere. Ebbene, quando non parlavo, saltava su e chiedeva sempre (sempre!):
« A cosa stai pensando? »
Come se pensassi a qualcosa in ogni momento!
A volte, a rigor di cronaca, l'intervallo scolastico trascorreva senza nemmeno un pensiero deciso. La matassa in testa mi si aggrovigliava con leggerezza, perché gli occhi erano catturati da un pezzo colorato di cortile e le orecchie da suoni qualunque. Capitava che non indugiassi su niente, che non focalizzassi l'attenzione su qualcosa in particolare e che invece soprassedessi su tutto.
Ma lei credeva io macinassi ad ogni respiro nuove idee.
« A cosa stai pensando? », diceva lei, come a volermi cogliere in fallo, trovarmi disattento, nel suo gioco del silenzio interrotto.
La prima volta non risposi subito. La verità è che non sapevo affatto cosa rispondere. Al mio mutismo prolungato lei fece seguire l'osservazione stringente: « Dai, non è possibile che non stai pensando a niente ».
Non volevo dargliela vinta, perché non mi credevo uno stupido come quelli dell'altra sezione. Scelsi allora un pensiero a caso, che doveva certamente essere stupido, ma lei parve accontentarsi.
Alla domanda fatale sul cosa pensassi insomma, all'inizio, zoppicai piuttosto malamente nell'esposizione. Indicavo di volta in volta poco definibili pensieri sui giochi del giardinetto della scuola; oppure buttavo lì un nome scelto tra quelli dei nostri amici - « Oh, no, niente, pensavo a Maddalena... », ah, beata infanzia senza malizia! -; a volte facevo finta di riflettere sulla merenda che stavo mangiando, sui cartoni animati che avrei guardato e su quali personaggi sarei diventato - o di quali avrei preso il posto.
Poi però sviluppai una certa abilità nella risposta, che doveva essere ovviamente il più veloce possibile, perché non è che un pensiero che stai pensando deve venirti in mente. Dovresti averlo già lì, in testa.
A lei piaceva così tanto sentirmi parlare, o inventare. Le piaceva così tanto che poi venne a piacere pure a me.
Ora non le tengo più la mano, e non le porto più le margherite. Non so nemmeno dove sia, adesso, quella bambina dai capelli lunghi. Spero abbia un grosso giardino con cani e dinosauri, ed un seggiolino sul sedile posteriore dell'auto.
E sicuro però che, da allora, per quel che fu forse solo una curiosità di bambina, un gioco o una prova, quando faccio silenzio o quando sono solo, non m'è più capitato di non pensare a niente.
§Johan Razev§
Terminazioni
Our love, our hope, our sorrow, is not dead;
See, on the silken fringe of his faint eyes,
Like dew upon a sleeping flower, there lies
A tear some Dream has loosened from his brain.
("Adonais. An Elegy on the Death of John Keats", by Percy Bysshe Shelley)
Il termine può essere un piccolo dispetto dell'impressione, una traccia da annotare e che a volte sfugge. Analogo, insomma, alle chiacchiere indugianti che si stiracchiano nel foyer del teatro e che si ascoltano e non si ascoltano, oppure a quel sasso che un bambino getta nel pozzo per misurarne la profondità. Se questo è troppo leggero, se il rumore è troppo debole, se il bambino è disattento, ecco che il sasso in questione è improvvisamente, sensazionalmente destinato a cadere per sempre.
Il termine è labile, e può essere fiacco. La fine può essere condannata a finire per sempre.
Ingmar Bergman, Il Settimo Sigillo, 1956
§Johan Razev§
See, on the silken fringe of his faint eyes,
Like dew upon a sleeping flower, there lies
A tear some Dream has loosened from his brain.
("Adonais. An Elegy on the Death of John Keats", by Percy Bysshe Shelley)
Il termine può essere un piccolo dispetto dell'impressione, una traccia da annotare e che a volte sfugge. Analogo, insomma, alle chiacchiere indugianti che si stiracchiano nel foyer del teatro e che si ascoltano e non si ascoltano, oppure a quel sasso che un bambino getta nel pozzo per misurarne la profondità. Se questo è troppo leggero, se il rumore è troppo debole, se il bambino è disattento, ecco che il sasso in questione è improvvisamente, sensazionalmente destinato a cadere per sempre.
Il termine è labile, e può essere fiacco. La fine può essere condannata a finire per sempre.
Ingmar Bergman, Il Settimo Sigillo, 1956
§Johan Razev§
E' un'illusione, la delusione
Étienne Carjat, Arthur Rimbaud, ottobre 1871
Ora capisco: è un'illusione, la delusione.
Tu, rovinosa infanzia dalle ampie vedute, abbandonata nel sollucchero della rarefazione e della vanità genuina, inosciente ed amara, ci osservi da dietro gli angoli delle strade, ti muovi saltellando da lampione a lampione, come fosse un gioco, divertente e meschino. Ridolini e capricci comprimono la visuale, dilatano l'iride, e con essa la strada muta e sciaborda, in una stabile disaffezione. La stabilità della tempesta, oltre la quale si allarga di nuovo il giorno che passa, s(t)olido, e l'oblìo che ci veste e ci copre, ci lava la schiena e ci accompagna alla tavola. E lì la perdiamo di nuovo, l'infanzia. E tutto quello che ne è venuto. Una dimenticanza, che ha menato un colpo e poi ha proseguito, passandoci accanto. Mai ferma, muovendosi sempre alla stessa andatura, come uno spirito condannato, circondata - ed accompagnata - da battiti di mani che confondono l'udito. Non si volta, e del trascorso noi vediamo i capelli lunghi, le spalle tirate, i fianchi larghi, le gambe terribili. Ci viene nascosto ciò che ha macchiato le mani.
E mordendosi un labbro, c'è chi dice:
« L'ho dimenticato. »
E l'ingenuo allora domanda, sempre troppo in fretta:
« Cosa? »
« Non so. L'ho dimenticato. »
Intricata, illogica impasse.
§Johan Razev§
Ora capisco: è un'illusione, la delusione.
Tu, rovinosa infanzia dalle ampie vedute, abbandonata nel sollucchero della rarefazione e della vanità genuina, inosciente ed amara, ci osservi da dietro gli angoli delle strade, ti muovi saltellando da lampione a lampione, come fosse un gioco, divertente e meschino. Ridolini e capricci comprimono la visuale, dilatano l'iride, e con essa la strada muta e sciaborda, in una stabile disaffezione. La stabilità della tempesta, oltre la quale si allarga di nuovo il giorno che passa, s(t)olido, e l'oblìo che ci veste e ci copre, ci lava la schiena e ci accompagna alla tavola. E lì la perdiamo di nuovo, l'infanzia. E tutto quello che ne è venuto. Una dimenticanza, che ha menato un colpo e poi ha proseguito, passandoci accanto. Mai ferma, muovendosi sempre alla stessa andatura, come uno spirito condannato, circondata - ed accompagnata - da battiti di mani che confondono l'udito. Non si volta, e del trascorso noi vediamo i capelli lunghi, le spalle tirate, i fianchi larghi, le gambe terribili. Ci viene nascosto ciò che ha macchiato le mani.
E mordendosi un labbro, c'è chi dice:
« L'ho dimenticato. »
E l'ingenuo allora domanda, sempre troppo in fretta:
« Cosa? »
« Non so. L'ho dimenticato. »
Intricata, illogica impasse.
§Johan Razev§
Farsi capitare un destino
Théophile-Alexandre Steinlen, Tournée du Chat Noir, 1896. Litografia a colori, 40 × 62 cm, Museo Van Gogh, Amsterdam.
Non era certo un gatto qualunque.
Non si sentiva speciale per qualche merito, o per qualche destino specifico che potesse individuarlo in mezzo alla società felina, ma pure gli altri glielo dicevano spesso: “Non sei un gatto qualunquemiao.” Loro avevano questa abitudine di miagolare alla fine delle frasi.
Lui ci pensò a lungo, cercando in sé qualche carattere che potesse dare un senso all'espressione. Invece niente. Si sentiva anzi potenzialmente mediocre. Passava le sue giornate a leccarsi le zampe e la coda, cercando del cibo agli angoli della recinzione, e talvolta perorando la causa della sua famiglia (brutta storia, questa) al Consiglio dei Gatti del Recinto. Si chiamava Miamao. I suoi miagolii erano bassi, spesso più bassi di quelli dei suoi coetanei. In pochi infatti riuscivano a sentirlo, anche al Consiglio.
Una esistenza piuttosto povera.
Ogni tanto, qualche spelacchiato da oltre la rete gettava sull'erba pezzi di carne; a volte entrava addirittura per lasciare ciotole piene di pezzetti croccanti e molto saporiti.
Gli spelacchiati, sì. Creature immense, che si coprivano con stoffa che non era il loro pelo (li aveva visti, Miamao, d'estate, come sono sotto) e parlavano una lingua articolata, piena di così tante sonorità da lasciare interdetti. Chissà quante cose si dicevano, con quel linguaggio che pareva sempre diverso. Forse erano creature che non sapevano ripetersi, costrette a dirsi ogni volta qualcosa di nuovo.
A Miamao, però, nonostante il rispetto del buon gatto nei confronti di chi gli porta da mangiare, quelle creature stavano antipatiche. Proprio antipatiche. Si comportavano come fossero i loro padroni, ma tutti sanno che i gatti non hanno padroni. Hanno semmai mamme. E basta. I papà non li considerano nemmeno.
Quegli spelacchiati, invece, erano convinti di poterli tenere con sé a forza.
Capitava addirittura che qualcuno di loro entrasse nel recinto, prendesse uno degli altri e lo portasse chissà dove. C'era perfino chi pensava fossero mangiatori di gatti. Ma loro vivevano lì da sempre, ed erano comunque poco propensi ad ipotizzare per natura. Miamao li trovava antipatici, dunque, ma come gli altri non si faceva poi molte domande. Li lasciava fare. Li guardava incuriosito, ed intimamente all'erta, casomai facessero qualche movimento avventato, o qualche gesto minaccioso. - Un gatto qualunquemiao.. - disse fra sé, in una giornata d'inverno non particolarmente fredda, mentre guardava le ciotole vuote.
Quel pensiero gli aveva riempito la testa, quasi come se avesse palle di pelo anche nel cervello che non riusciva a sputare fuori. La sua mediocrità era diventata la prova inconfutabile che la sua mamma sbagliava. Ma le mamme non sbagliano, anche quando ti danno una zampata sul muso e tu devi stare fermo per non prenderne altre.
Il rumore del cancelletto che si apriva lo riportò alla realtà: uno spelacchiato entrava assieme ad una piccola spelacchiata. Era raro vederne di cucciole. Quella lì portava capelli rossi che quasi si sarebbe potuto dire avesse il capo del Consiglio, Miaomo, in testa, anche se ormai Miaomo era vecchio e sporco ed il suo pelo rosso non era più altrettanto bello.
La cucciola di spelacchiato girava mano nella mano con quello più grande e guardava i gatti con meraviglia, come se non ne avesse mai visto uno. Forse era così. Alzò un braccio, abbassando il viso a terra e parlò. Miamao non la trovava antipatica. Il suono della sua voce era dolce, un po' stridulo forse, ma dolce. Ed il braccio era alzato nella sua direzione. Il ditino rosa lo indicava.
Fece per correre via, nel momento in cui lo spelacchiato più alto si mosse. Ma poi decise di avvicinarsi, quando questi si piegò sfregando le dita della mano. Forse voleva dargli qualcosa da mangiare, pensò (anche se in quella trappola da quattro soldi era già caduto svariate volte). Sempre ben attento, zampettò fino ad arrivare a pochi centimetri da quell'arto nudo. Si sentì afferrare da dietro la testa e senza provare dolore finì in braccio alla piccola spelacchiata. Questa iniziò a passargli le dita sulla testa. Erano carezze. Un po' goffe, ma a Miamao ricordavano le leccate della sua mamma. Iniziò a fare le fusa. Senza vergogna. E si sentiva bene.
- Miamao -, si presentò.
Solo in quel momento, dopo tanto tempo, afferrò intimamente cosa significasse non essere un gatto qualunque. Era stato scelto, unico fra tanti. Non Miaomo, né Memamao. Proprio lui.
E come si fa ad essere uno qualunque quando sei l'unica creatura del recinto tra le braccia deboli e gracili, ma calde, di quella cucciola? Uscì attraverso il cancelletto, dondolando contro il petto di quell'esserino e continuando a fare le fusa. Non vi tornò più.
Ora vive insieme a quella bambina (si chiamano così le cucciole di spelacchiati). Lei lo chiama Bertoldo, e lui continua a ripeterle “Miamao”, ma è una piccola incomprensione sulla quale il gatto può soprassedere.
(Michel De Fin, Martelli Sognanti, Parigi, 1958)
§Johan Razev§
Non era certo un gatto qualunque.
Non si sentiva speciale per qualche merito, o per qualche destino specifico che potesse individuarlo in mezzo alla società felina, ma pure gli altri glielo dicevano spesso: “Non sei un gatto qualunquemiao.” Loro avevano questa abitudine di miagolare alla fine delle frasi.
Lui ci pensò a lungo, cercando in sé qualche carattere che potesse dare un senso all'espressione. Invece niente. Si sentiva anzi potenzialmente mediocre. Passava le sue giornate a leccarsi le zampe e la coda, cercando del cibo agli angoli della recinzione, e talvolta perorando la causa della sua famiglia (brutta storia, questa) al Consiglio dei Gatti del Recinto. Si chiamava Miamao. I suoi miagolii erano bassi, spesso più bassi di quelli dei suoi coetanei. In pochi infatti riuscivano a sentirlo, anche al Consiglio.
Una esistenza piuttosto povera.
Ogni tanto, qualche spelacchiato da oltre la rete gettava sull'erba pezzi di carne; a volte entrava addirittura per lasciare ciotole piene di pezzetti croccanti e molto saporiti.
Gli spelacchiati, sì. Creature immense, che si coprivano con stoffa che non era il loro pelo (li aveva visti, Miamao, d'estate, come sono sotto) e parlavano una lingua articolata, piena di così tante sonorità da lasciare interdetti. Chissà quante cose si dicevano, con quel linguaggio che pareva sempre diverso. Forse erano creature che non sapevano ripetersi, costrette a dirsi ogni volta qualcosa di nuovo.
A Miamao, però, nonostante il rispetto del buon gatto nei confronti di chi gli porta da mangiare, quelle creature stavano antipatiche. Proprio antipatiche. Si comportavano come fossero i loro padroni, ma tutti sanno che i gatti non hanno padroni. Hanno semmai mamme. E basta. I papà non li considerano nemmeno.
Quegli spelacchiati, invece, erano convinti di poterli tenere con sé a forza.
Capitava addirittura che qualcuno di loro entrasse nel recinto, prendesse uno degli altri e lo portasse chissà dove. C'era perfino chi pensava fossero mangiatori di gatti. Ma loro vivevano lì da sempre, ed erano comunque poco propensi ad ipotizzare per natura. Miamao li trovava antipatici, dunque, ma come gli altri non si faceva poi molte domande. Li lasciava fare. Li guardava incuriosito, ed intimamente all'erta, casomai facessero qualche movimento avventato, o qualche gesto minaccioso. - Un gatto qualunquemiao.. - disse fra sé, in una giornata d'inverno non particolarmente fredda, mentre guardava le ciotole vuote.
Quel pensiero gli aveva riempito la testa, quasi come se avesse palle di pelo anche nel cervello che non riusciva a sputare fuori. La sua mediocrità era diventata la prova inconfutabile che la sua mamma sbagliava. Ma le mamme non sbagliano, anche quando ti danno una zampata sul muso e tu devi stare fermo per non prenderne altre.
Il rumore del cancelletto che si apriva lo riportò alla realtà: uno spelacchiato entrava assieme ad una piccola spelacchiata. Era raro vederne di cucciole. Quella lì portava capelli rossi che quasi si sarebbe potuto dire avesse il capo del Consiglio, Miaomo, in testa, anche se ormai Miaomo era vecchio e sporco ed il suo pelo rosso non era più altrettanto bello.
La cucciola di spelacchiato girava mano nella mano con quello più grande e guardava i gatti con meraviglia, come se non ne avesse mai visto uno. Forse era così. Alzò un braccio, abbassando il viso a terra e parlò. Miamao non la trovava antipatica. Il suono della sua voce era dolce, un po' stridulo forse, ma dolce. Ed il braccio era alzato nella sua direzione. Il ditino rosa lo indicava.
Fece per correre via, nel momento in cui lo spelacchiato più alto si mosse. Ma poi decise di avvicinarsi, quando questi si piegò sfregando le dita della mano. Forse voleva dargli qualcosa da mangiare, pensò (anche se in quella trappola da quattro soldi era già caduto svariate volte). Sempre ben attento, zampettò fino ad arrivare a pochi centimetri da quell'arto nudo. Si sentì afferrare da dietro la testa e senza provare dolore finì in braccio alla piccola spelacchiata. Questa iniziò a passargli le dita sulla testa. Erano carezze. Un po' goffe, ma a Miamao ricordavano le leccate della sua mamma. Iniziò a fare le fusa. Senza vergogna. E si sentiva bene.
- Miamao -, si presentò.
Solo in quel momento, dopo tanto tempo, afferrò intimamente cosa significasse non essere un gatto qualunque. Era stato scelto, unico fra tanti. Non Miaomo, né Memamao. Proprio lui.
E come si fa ad essere uno qualunque quando sei l'unica creatura del recinto tra le braccia deboli e gracili, ma calde, di quella cucciola? Uscì attraverso il cancelletto, dondolando contro il petto di quell'esserino e continuando a fare le fusa. Non vi tornò più.
Ora vive insieme a quella bambina (si chiamano così le cucciole di spelacchiati). Lei lo chiama Bertoldo, e lui continua a ripeterle “Miamao”, ma è una piccola incomprensione sulla quale il gatto può soprassedere.
(Michel De Fin, Martelli Sognanti, Parigi, 1958)
§Johan Razev§
Affondo e stoccata
Vladimir Kush, Sysyphus
Compressione; e comprensione.
Non abbiamo tempo di alzarci, abbracciati dagli occhi delle persone, perché ad esse appariamo per sanità sociale già edotti, stabili, equiparabili ad una sezione nel tempo che si prolunga e diventa coerente, nella sua totalità bidimensionale. E dunque, più propriamente, essa non diventa, ma piuttosto permane coerente nell'aspetto generale.
Ci dimentichiamo la corruzione, il deterioramento, la mistificazione, ci dimentichiamo di essere forme incostanti, ed instabili. Dimentichiamo come non possa essere altrimenti; da cui le lunghe, fiacche esistenze all'insegna della compartecipazione dialettica ad absurdum, della manichea assicurazione (e rassicurazione) degli atti del processo.
Da qui, infine, la compulsione; e da qui, talvolta, se si ha fortuna, la compassione.
Il sarcasmo dei perdenti è l'unico funzionale, il vettore del grottesco, del mefistofelico, il resto è solo spettacolo di autocelebrazione povera, epica personale, leggenda soggettiva e di ira cerebrale. La stessa che in vuote sale rimbomba del suono di schiocchi di tacchi, di perle tintinnanti, e rabbrividisce, marchiandosi con pelle d'oca, per aperte finestre sul ciglio del sentiero, all'orlo del bosco, nella desolazione della vallata.
Non conosco ancora un modo per lasciare gli edotti alle loro divagazioni già giuste, non so quale sia la maniera di guardare gli occhi di chi vede solo ciò che è vero, non so nemmeno con quale parola richiamare l'attenzione dell'onesto. Essi si rispondono fra di loro soltanto, in un mondo altèro, àltero (sic), su olimpici monti di cristallo, inseguendosi fra arcate criselefantine, gettandosi nel buio dei gorghi marini e giocando in prigioni di vento e nuvole ed alghe e correnti gelate. Si sfuggono, suggerendosi a vicenda dove si andranno a nascondere la volta successiva.
Ma no, restate; ve ne prego restate. Non c'è bisogno che vi alziate. Non c'è tempo, per davvero, perché vi alziate. State giù. Io, proprio sì, lo preferisco. Alzatevi solo quando v'avrò dato le spalle, indaffarato come sono e sarò nei miei moti lunari, nelle ellissi stellari. Tra Cefeo e Cassiopea io ho eretto una porta; varcandola io discendo e palmo a palmo puntello i limiti estremi del cosmo alla ricerca di esemplari così come siete voialtri, con la faccia rubizza all'altezza del mio stivale. Ma che gusto poi ci sarebbe, dico io, ad aspettare che possiate fissarmi occhi negli occhi, simmetricamente naso a naso, e sopracciglio a sopracciglio? Tanto mi basta. Restate giù, datemi un attimo ancora per godere della mia eccelsa altezza e santissima coercizione.
Conclusione; e confessione
E tu, etereo spirito marchiatore?
Io cosa, mani polverose?
Ti sei mai preso il tempo per rimetterti in piedi, sempiterno colosso di lucentezza?
Oh, no, amico dai denti scheggiati e dagli umori fluttuanti, no. Io da quando son nato non mi son alzato mai.
§Johan Razev§
Compressione; e comprensione.
Non abbiamo tempo di alzarci, abbracciati dagli occhi delle persone, perché ad esse appariamo per sanità sociale già edotti, stabili, equiparabili ad una sezione nel tempo che si prolunga e diventa coerente, nella sua totalità bidimensionale. E dunque, più propriamente, essa non diventa, ma piuttosto permane coerente nell'aspetto generale.
Ci dimentichiamo la corruzione, il deterioramento, la mistificazione, ci dimentichiamo di essere forme incostanti, ed instabili. Dimentichiamo come non possa essere altrimenti; da cui le lunghe, fiacche esistenze all'insegna della compartecipazione dialettica ad absurdum, della manichea assicurazione (e rassicurazione) degli atti del processo.
Da qui, infine, la compulsione; e da qui, talvolta, se si ha fortuna, la compassione.
Il sarcasmo dei perdenti è l'unico funzionale, il vettore del grottesco, del mefistofelico, il resto è solo spettacolo di autocelebrazione povera, epica personale, leggenda soggettiva e di ira cerebrale. La stessa che in vuote sale rimbomba del suono di schiocchi di tacchi, di perle tintinnanti, e rabbrividisce, marchiandosi con pelle d'oca, per aperte finestre sul ciglio del sentiero, all'orlo del bosco, nella desolazione della vallata.
Non conosco ancora un modo per lasciare gli edotti alle loro divagazioni già giuste, non so quale sia la maniera di guardare gli occhi di chi vede solo ciò che è vero, non so nemmeno con quale parola richiamare l'attenzione dell'onesto. Essi si rispondono fra di loro soltanto, in un mondo altèro, àltero (sic), su olimpici monti di cristallo, inseguendosi fra arcate criselefantine, gettandosi nel buio dei gorghi marini e giocando in prigioni di vento e nuvole ed alghe e correnti gelate. Si sfuggono, suggerendosi a vicenda dove si andranno a nascondere la volta successiva.
Ma no, restate; ve ne prego restate. Non c'è bisogno che vi alziate. Non c'è tempo, per davvero, perché vi alziate. State giù. Io, proprio sì, lo preferisco. Alzatevi solo quando v'avrò dato le spalle, indaffarato come sono e sarò nei miei moti lunari, nelle ellissi stellari. Tra Cefeo e Cassiopea io ho eretto una porta; varcandola io discendo e palmo a palmo puntello i limiti estremi del cosmo alla ricerca di esemplari così come siete voialtri, con la faccia rubizza all'altezza del mio stivale. Ma che gusto poi ci sarebbe, dico io, ad aspettare che possiate fissarmi occhi negli occhi, simmetricamente naso a naso, e sopracciglio a sopracciglio? Tanto mi basta. Restate giù, datemi un attimo ancora per godere della mia eccelsa altezza e santissima coercizione.
Conclusione; e confessione
E tu, etereo spirito marchiatore?
Io cosa, mani polverose?
Ti sei mai preso il tempo per rimetterti in piedi, sempiterno colosso di lucentezza?
Oh, no, amico dai denti scheggiati e dagli umori fluttuanti, no. Io da quando son nato non mi son alzato mai.
§Johan Razev§
Trenta. E l'Ode.
Quando uno studente si siede davanti al professore il suo sguardo deve mimare una padronanza totale dell'argomento in esame. Qui entra in gioco la scelta di stile, di dialettica degli occhi, della piega delle labbra. E' un vasto universo che deve far soffermare l'esaminatore sul carattere espressivo, sulla fiducia, sulla buona disposizione. C'è chi ha passato gli ultimi mesi a sudare sul Lachmann, chi ne conosce una ragionevole parte, chi uno spicchio inconsistente e chi ha prediletto la fortuna come maestra dispensatrice di diciotto. Non cambia. La faccia che maschera la mente, seduta lì davanti, è proprio uguale uguale, nell'essenza. Tutti sono esaltazione vivente e forzosa della conoscenza impeccabile. Due domande, due occhiate sveglie, due altre interrogative. Così si svela l'arcano, e quelle facce allora mutano, si svelano e si spogliano. Dietro c'è l'apprensione, c'è la sorpresa, c'è talvolta l'arrendevolezza. Ma tutto parte dal fulcro originario. Siamo a farci la pelle flaccida, l'occhio stanco, per disarmare, prima di colpire. Siamo spiegazioni di vecchio stampo, siamo granitiche forme di adulazione o refrattarietà di qua o di là a seconda del tempo e dell'occasione. E non su quella sedia che ci gela il culo. Non solo. Siamo da bacio accademico così spesso che ad ogni passo falso ciò che più ferisce è realizzare nell'inganno personale che "eppure io avevo studiato" o riscattarsi cercando a tentoni la realizzazione e dunque "la prego mi faccia un'altra domanda". Esistiamo convincendoci che basti mezza padronanza o mezza fortuna per saperci esperti e sapienti, per strattonare una approvazione estrinseca nella nostra direzione.
Abbiamo tutti lo stesso sguardo di eccellenza, quando ci vaghiamo attorno l'un l'altro, quando ci circondiamo e ci tocchiamo le dita. Ma solo gli déi hanno sudato per il 30 e lode, e sono studenti altezzosi che non ti prestano gli appunti e che hanno il papà nel Consiglio di Amministrazione.
- Non si affligga. Non ha studiato abbastanza. Torni la prossima volta.
- Mi faccia un'altra domanda, la prego.
- S'è guardato in faccia?
(Narciso Vanesi, "30 e l'ode", 2013)
§Johan Razev§
- Non si affligga. Non ha studiato abbastanza. Torni la prossima volta.
- Mi faccia un'altra domanda, la prego.
- S'è guardato in faccia?
(Narciso Vanesi, "30 e l'ode", 2013)
§Johan Razev§
Chu-chuf!
Infrastrutture complesse, polifunzionali,
Trazioni come coacervi di impianti ed intenzioni.
Sistemi bipolari, rampicanti sociali
Che dolorosamente si mischiano
Nella cabina quadrangolare e nella netta
Deiezione - Verfallenheit.
Ma poi venne a salvarti la morte:
Deraglia il treno, con i suoi vetri spessi,
E si schianta contro le palazzine;
Profondi solchi e barre distorte
E manti di fumo, che coprono, per pudore
Le braccia contorte, il corpo disteso.
(Charles Meursault, "Verso una generica stupidità", 2014)
§Johan Razev§
Il Tempo appeso
Ricordo di aver pensato di comprendere per la prima volta il senso estetico di Dalì che era notte fonda; la mollezza delle forme ad una luce franca e raccolta, i fili della televisione e del portatile appesi, sciolti o intrecciati - non importa -, ma sempre così abbandonatamente appesi, in un simpatico equilibrio a volute. Il concetto del tempo e della stanchezza, i ricordi e la persistenza fiacca della memoria; le ombre allungate e la fantasmagoria della soggezione, ma non della sottovalutazione o della sottomissione, quanto piuttosto della resistenza e della compostezza - da cui la composizione.
In una stanza notturna, che è l'espressione del giorno trascorso, e che da esso scaturisce in una immobilità estrinseca - ma non intrinseca -, ho capito che il tempo non passa, ma si raccoglie: lo si ammassa in un punto, dopo averlo portato addosso. Non scorre il tempo, ma viene lasciato a dismettersi come un abito vuoto sullo schienale di una sedia, in quella irresistibile convinzione che domani potresti indossarlo nuovamente.
Salvador Dalí, La persistenza della memoria, olio su tela, 1931
§Johan Razev§
Salvador Dalí, La persistenza della memoria, olio su tela, 1931
§Johan Razev§
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