La predeterminazione alla noia,
alla fantasia, all'elemento
indispensabile che circonda la soglia
onirica della notte,
che è un tema di difficile definizione;
la segregazione;
l'amalgama tomistica della conversazione;
e poi ancora l'eutanasia della memoria,
il misterico
intervallo seminale sinaptico
su alberi dendritici,
come sciami temporaleschi,
come mandrie cumuliformi
o trasognanti cirri.
Lì,
all'ombra di un pomeriggio
che si dilunga in retoriche stantie,
io mi addentro
come sul sentiero che porta
ad una dimora familiare,
che domina la Valle
ed il fiume
dove un giorno lei
immerse il mento per bere
e si rinfrescò la fronte.
Si dipana allora l'allerta,
come se risuonasse il vento
da parte a parte
e con esso il cachinno
sguaiato degli animali del bosco.
A quel trambusto,
il composto sudiario che tengo
sulle spalle, sul quale
si intravedono i volti scomparsi,
scivola a terra
e ricopre le pietre del sentiero.
Un lembo si bagna in una pozza
lì accanto,
e si scurisce.
Da esso fluisce sangue coagulato,
iniettando nella trasparenza
cristallina dell'acqua l'infezione,
ridisponendo la purezza
in miasmatico dileggio,
fumosa e rapsodica incoerenza.
Proprio questo avvelenamento del suolo,
come se labbra salvifiche
avessero succhiato fuori il veleno,
mi slega le ginocchia,
e così mi è permesso proseguire.
Non c'è più
la tenera ossessione,
non c'è nemmeno più
la monomania dilapidante
che germoglia in un piccolo spazio,
circonvoluzionaria.
Ora c'è la bella stagione.
§Johan Razev§
martedì 1 aprile 2014
lunedì 17 marzo 2014
Un Serial Killer da Manuale
Il male non è mai straordinario, ed è sempre umano. Divide il letto con noi e siede alla nostra tavola. (Wystan Hugh Auden)Sono perfettamente proporzionato. Proporzionato ai miei incubi, beninteso. Resto lucido, maturando con essi una smisurata coscienza, generando spasmodiche elevazioni ed orgasmi fantoccio; ho perpetrato sonni malvagi, asettici sogni incrostati, cicatriziali, suggendo le mammelle in camice, partorendo mostri in corsia e demoni gloglottanti. Velopendulo. Epiglottide. Tonsilla palatina. Tonsilla linguale. Non mi svegliavo, la notte, gridando. Non erano miei, quegli incubi. Me li hanno donati, come balocchi a Natale, come ceste di frutta da buon vicinato. Accurati, indaffarati, indifferenti vicini su slitte volanti. Giocattoli, quegli incubi, fabbricati con maestria, misura a misura per me, apposta per me. E poi li hanno ombreggiati di orpelli, per festeggiare in ritardo un carnevale grottesco, miasmatico; confusionario carnevale di visi criminosi ed olezzo criminale. Vibrazione coclidea. Tremebonda, la mascella; la vena che si incide nella carne ed, ecco, finalmente, infine, ordunque, il braccio è paralizzato. Sinilcolina. Un tocco di fino. Una crudele genialità. Non credo mi ci abituerò mai. E poi foto, sui giornali, spiaccicate sugli schermi, peregrine, cattivelle; tavole imbandite, imbastite, bestiali, per la sala affamata, gente effeminata. Hanno scelto dunque incubi, per il mio compleanno. Ereditati a richiesta, volontariamente. Ma poi ne ho proposti di nuovi, ligio alla mia indomita fantasia. Novità d’autore, se vogliamo. Sezioni di gioia, ecco. Mostruosità del potere. Ancora, ancora. Sezioni di carne, ed occhi vigili. Ho ricevuto i miei regali, recapitati alle porte della notte, sul pavimento freddo, legati con funi scottanti e manette a mo’ di fiocchi gioiosi. Le porte della notte. Di una notte. Ecco. Silenzio. Da qualche parte squilla un telefono. Ecco. Silenzio. Suona il campanello. * * * Il ronzio del cellulare che vibrava, allucinato, sotto l’abat-jour, non raggiunse le orecchie di Ylenia prima della terza ripresa, mentre questa stava uscendo dal vano-doccia. Lo specchio appannato la impressionò con ricordi farraginosi della notte appena trascorsa. I postumi della sbornia selezionarono alla rinfusa qualche immagine membranosa, suoni ovattati e visi pallidi da deliquio. Nella camera da letto, alle spalle della porta semi-aperta, il cellulare vibrò nuovamente, trascinandola al suo quotidiano teatrino di insoddisfazioni lavorative e stress post-traumatici. Arrotolò stretto un asciugamano al capo, uscì dal bagno, nuda, e si mosse fino al comodino, assaporando la sensazione della moquette sotto i piedi. Diede appena un’occhiata alla figura che dormiva nel suo letto, in quell’asettico albergo del Centro Storico, il Columbus. A quella vista, le balenò in mente la luna. Una luna pesante, incrostata di plasma, che faceva capolino da dietro un tetto, mentre quell’uomo, di cui dovette farsi ripetere svariate volte il nome, le infilava una mano nelle mutande. Com’è che si chiama?, si domandò Ylenia, afferrando il cellulare incastrato fra un paio di libri ed un bicchiere striato di calcare e tracce di aspirina. Nicola Raggetti. Non l’uomo sul letto: era il nome sul display. « Buon giorno, General Raggetti. » Impostò la voce, cercando di cancellare ogni segnale di nausea. « Buon giorno, Dottoressa. » Imperioso, come sempre. Più che un saluto, pareva avesse ordinato al giorno d’esser buono. « Abbiamo bisogno di una sua consulenza. Spero non le dispiaccia. Ho già parlato con i suoi superiori, a Roma. Una volante verrà a prenderla fra una ventina di minuti. Ha il tempo per un caffé. Si metta qualcosa addosso. » Ylenia, automaticamente, si coprì il seno e ci mancò poco che non battesse i tacchi alla maniera militare. Quella donna era, infatti, un agente operativo della quarta divisone della Polizia Scientifica di Roma, dottoressa in Psicologia Criminale. Era una personalità tenuta in alto conto fra i colleghi. Famosa per aver risolto alcuni difficili casi nel Centro Italia, dalla strage di Vasto del ‘95 - in quello che fu uno dei suoi primi incarichi -, al Mostro di Ciampino. Lavorò poi a stretto contatto con l’F.B.I., coordinando operazioni internazionali nell’ambito del narcotraffico che culminarono, qualche anno fa, nell’arresto di Aleksandar Milanković. « Che cosa è successo? » Ponendo la domanda, Ylenia assunse di nuovo la compostezza con la quale si mascherava alla luce del giorno. Si trovava a Reggio Emilia ormai da una settimana, e se il General Raggetti, del R.I.S. di Parma, non avesse deciso altrimenti, il suo programma sarebbe stato quello di ripartire il giorno successivo. Per tornare a Roma. In quella mattina ancora spenta, Raggetti rispose: « E’ probabile ci sia una nuova vittima di un serial killer che pensavamo scomparso da tempo. Conosce qualche dettaglio sull’enucleatore? » Sì, lo conosceva. Ma non fu questo a bloccarle ogni movimento e fermarle il respiro in gola. All’apice della propria carriera, e a soli 36 anni, Ylenia si avviò a scrivere un libro, un volume divulgativo sul Criminal Profiling. Nello specifico, si adoperò per diffondere le ricerche svolte al Laboratorio per l’Analisi del Comportamento, nella Capitale, basate sulla sua ormai discreta esperienza nel campo dell’investigazione e nella classificazione del Profilo Psicologico. In occasione della promozione del saggio, “Nuove tecniche di Profilazione Criminale”, Ylenia venne assorbita in un mondo di notorietà e pornografia dell’immagine. Non che fosse tanto ingenua da non aspettarselo, ma venne ugualmente presa in contro-tempo, e dunque non si fece trovare preparata. Era ammorbante venire ogni volta introdotta al suono di applausi artificiosi e sedersi accompagnata da sorrisi millantatori di chissà quale retroscena culturale, ed aste e microfoni ritti, mesmerizzanti, come soldatini contorti, e scegliere di ripetere ogni volta sempre lo stesso discorso. Lei, del resto, era stata abituata al lavoro isolato, era cresciuta professionalmente fra quattro mura, fianco a fianco con poche persone; lunghi anni nel silenzio di una stanza non permettono una facile manovrabilità delle proprie intenzioni di fronte ad un pubblico fondamentalmente, e bonariamente, ignorante, curioso e stupido, il più delle volte rumoroso. Non che la indispettisse, in fin dei conti, ma a distanza di qualche mese, ancora non si trovava a proprio agio nel fronteggiare una folla di cittadini e fantasiose domande da dietro un microfono. Per questo motivo non diede gran peso a quel che era accaduto un paio di giorni prima, alla Conferenza che tenne alla Libreria All’Arco. Ora, però, quell’episodio le franò addosso, investendola con rinvigorito patimento allorché comprese il peso effettivo delle proprie allusioni. In quella occasione, infatti, schiacciata contro la finestra da un pubblico più nutrito del solito, fra interessati, qualche agente e studenti universitari con quaderni ad anelli e sguardi velleitari, si trovò a rispondere ad un ragazzo, capelli lunghi e corvini, serio in volto, quasi imbronciato, il quale chiese la parola alla fine della presentazione, mentre ancora tutti stavano applaudendo. Ricercò in lei un parere professionale sull’identità presunta del serial killer che le cronache del tempo, dal momento che non era più attivo da un anno e mezzo, definivano drammaticamente “l’enucleatore”. Lei decise di rispondere con scientifica precisione, sostenendo che la giustizia a volte conduceva trame invisibili e che buona parte degli assassini seriali concludevano la propria carriera venendo arrestati per crimini minori o morendo in maniera accidentale. Le sue parole specifiche, in bilico sopra un sorriso esperto, furono: « Probabilmente ora si trova in galera. O forse è morto. » La reazione del pubblico fu contrariata, ed in un primo momento Ylenia se ne stupì. Non fosse altro che, quasi immediatamente, venne informata della presenza, in sala, di alcuni tra i parenti delle vittime dell’enucleatore, i quali ad una spiegazione così blanda non potevano e non volevano credere. La giustizia non si accontenta di forme latenti: il più delle volte vuole essere sommaria, o concreta, comunque palpabile. Sapere che l’assassino dei propri cari fosse morto probabilmente, che fosse stato arrestato probabilmente, suonava come un’astensione dal giudizio, come un incomprensibile laissez-faire nei confronti della casualità. E se non fosse morto? Se non fosse stato arrestato? Nell’intenzione di Ylenia c’era la volontà di stemperare una inquietudine ancora fresca, ma fomentò l’incomprensione e forzò l’allontanamento fra il privato cittadino e le forze dell’ordine che ne dovevano assicurare la protezione. Laddove la gente provava ancora paura, lei inciampò in un errore da principianti: disse loro che probabilmente erano salvi. E a distanza di soli due giorni il General Raggetti le annunciava un nuovo omicidio. Non era possibile credere ad una coincidenza; nel caso si fosse trattato davvero dell’enucleatore, non avrebbe potuto esulare sé stessa da un indiretto, ma profondo senso di colpa. Aveva ceduto di fronte alla palese perplessità, non aveva colto il segnale d’allarme, e così aveva risposto di fretta. « Mi preparo. Attendo la volante. » Concluse la donna, desiderando interrompere quella telefonata il prima possibile. « A fra poco, Dottoressa. » « A fra poco, Generale. » Click. Mentre si vestiva, svegliò il suo temporaneo compagno di stanza spingendolo a fare altrettanto. Presero l’ascensore in silenzio. Si salutarono con una certa freddezza, nella Hall. Lui alzò una mano, goffamente, mentre usciva sulla strada. Lei, finalmente sola, si diresse al bar del Columbus. Appoggiando la tazzina del caffé, Ylenia si muoveva con coordinazione. Ne studiava distrattamente il suono, e l’astrazione dello zucchero non ancora del tutto sciolto sul fondo. Aveva pochi minuti prima che passassero a prenderla, e decise di concedersi una tregua, permettendosi un distacco propedeutico, che avrebbe potuto, e dovuto, riconsegnarle la professionalità necessaria ad affrontare il caso. Doveva essere lucida, di mente agile. Respirò profondamente quindi, facendosi forza su un braccio, si alzò dal tavolino, allungando l’altra mano in tasca, per cercare qualche moneta. Gettò quindi un paio di euro sul bancone, senza aspettare le venisse dato il resto. La mattina, fuori, cresceva con lentezza, e ne avvertì il dramma come se si trattasse di una sensazione di soffocamento, circondata in una sfera di vetro, annerita dal fuoco. Non si accorgeva di chi le passasse accanto, dietro le circonvoluzioni nere che avevano lasciato le fiamme, sopra quella gabbia trasparente che altri respiravano e che lei ingoiava. Reggio Emilia le sembrò ancora più spartana e provinciale. Non che le mancasse poi così tanto, Roma. Da anni ne conosceva, del resto, solo l’ombra dei marciapiedi, il sangue della passione, il tepore dell’asfalto, le inchieste e la burocrazia giudiziaria. Non le mancava, no. Però, ora che non si trovava più là, da mesi, si sentiva a disagio avvertendo quel sostanziale silenzio tutt’attorno. C’erano le macchine anche lì, a Reggio, ed i clacson, ma ogni suono era dilazionato, sospeso, e passava un momento in più prima che venisse emesso. Le persone gridavano, ridevano, ma un attimo più tardi. Desolata Reggio Emilia piena di gente. Desolante quella mattina. E dov’era finita, la luna, quando il sole decise di sorgere sul Mondo inquieto? E quell’uomo, l’avrebbe mai rivisto? O risentito? Com’è che si chiamava? In un lavoro come il suo, le occasioni di piacevolezze e distrazioni sono sottili lenti a contatto che stravolgono la prospettiva delle moralità. Non si faceva più molti problemi, quando si trattava di una notte di sesso. In fondo stava bene, ripeté a sé stessa. Ylenia si accostò alle porte dell’albergo, appoggiandosi ad una bianca colonna di marmo, ad attendere. E, silenziosamente, si mise a piangere, battendosi a più riprese un pugno sul fianco. No che non stava bene. Una mente malata, come lo era quella dell’enucleatore, ossessionata dal potere e dalla fama, davanti alla sua indifferenza, di fronte alla sua semplificazione d’indagine, avrebbe reagito nel peggiore dei modi, rinnovando l’impegno. Non riusciva ad ipotizzare un’altra più verosimile spiegazione per quella coincidenza di date. Quando la volante della Polizia le si fermò di fronte, ancora le bruciavano gli occhi. Salutò con formalità, assecondando la forza dell’abitudine, ma non fece caso alle parole che le vennero rivolte. Probabilmente complimenti, e salamelecchi su quanto fosse “un onore poterla scortare sulla scena del crimine”. Niente di nuovo. Il tragitto che percorsero fu inizialmente piano, scivolando lungo la Circonvallazione, poi si fece estremamente tortuoso, una volta usciti dalla periferia. Notò le case della città diradarsi, sviando in vecchie ville rimodernate con enormi portoni a volta, gettate come dadi su campi da coltivazione, poi nascoste di volta in volta dal paesaggio collinare e da piccole zone di boscaglia. Ci vollero circa venti minuti per raggiungere la destinazione. Si trattava di una villetta rurale che dominava un declivio dalle parti di Borzano, in posizione isolata. La costruzione si alzava timidamente alle spalle di un lungo viale alberato, che negli ultimi metri si piegava verso destra, nascondendo in questo modo la facciata del casolare fino alla svolta, che poi si allargava in una piazzola al centro della quale stava una pietosa fontana di marmo bianco, sporcata da tracce di fango e foglie cadute. L’auto si fermò accanto ad una coppia di agenti, uno dei quali stava annotando furiosamente qualcosa mentre l’altro indicava una finestra del secondo piano. Si trattava di una costruzione a pietra scoperta, di ottimo gusto, accanto alla quale si allungava un garage a due entrate. I proprietari dovevano essere benestanti. Il greppo collinare cadeva a lato, a pochi metri dalla parete orientale della casa, attorcigliato ad un sentiero che si divincolava sparendo immediatamente nell’erba lasciata crescere alta, e dal quale proprio in quel momento stava risalendo un agente in tuta di protezione e cuffia. Fra le mani teneva alcune buste. Ylenia aprì la portiera ed avvertì l’aria fresca del nuovo giorno, inquinata dal caos di personale che le si affaccendava attorno. Il suo compagno di viaggio la precedette di qualche passo, mentre lei estraeva il blocco note e si accingeva a seguirlo. Camminarono fino all’ingresso, il quale si alzava alla sommità di tre gradoni, tenuto a guardia da due vasi su cui qualcuno piantò gerani rosa, ora sul punto di seccarsi e morire. Il General Raggetti sostava sulla porta socchiusa. Accanto a lui una donna che indossava una vestaglia da camera con una mantellina. Quest’ultima teneva la testa piegata verso l’interno della casa, quasi fosse sul punto di rifugiarvisi. Ma era probabile volesse piuttosto fuggirne. Raggetti, dal canto suo, indirizzò ai due nuovi venuti uno sguardo da salapuzio, appeso sotto un paio di sopracciglia cespugliose che nascondevano occhi acuti ed affilati. I capelli, non pettinati, gli sfuggivano attorno alla testa rachitica, e davano l’idea di tende vetuste e strappate. Poi sorrise, facendo molti cenni con il viso affinché accelerassero il passo. « Il medico legale sta facendo le rilevazioni. Lui è Demetrio Vecchi, piccolo imprenditore della zona. Sua moglie, Alessia Magnavacchi. I figli Luca, di 8 anni, e Lucia, di 6. » Disse, quando gli furono vicini. Poi alzò una mano all’altezza del fianco, in direzione della donna e la presentò: « Questa è la signora Mancini. E’ stata lei a chiamarci. » Ylenia intervenne senza molti preamboli, concedendo alla signora Mancini solo un mezzo sorriso per poi riportare l’attenzione su Raggetti: « Mi faccia capire. » Questi alzò un sopracciglio, ma non disse una parola. Sembrò ponderare qualche opzione, forse una spiegazione, ma poi se ne uscì con uno sbuffo, prima di spalancare la porta alle proprie spalle e concludere: « Meglio che lo faccia il Capitano Manfredi. » Il corridoio che si allungava nel buio della casa li accolse con poco garbo, e nell’aria si odorava un penetrante odore di muffa e di silenzio. Un sapore di umido, e stantio. Mischiato agli aromi di gommalacca, acetone, cera d’api e vernice, come in quel caso, l’impressione era quella di trovarsi nella bottega di un artigiano. Molti dipinti si mostrarono alla tenue luce elettrica che scimmiottava quella ad olio del secolo scorso e molti volti li osservarono passare, forse incuriositi dal nuovo movimento, forse annoiati. Una vecchia barba, una fronte spaziosa. Di nuovo il buio. Girarono a destra, seguendo Raggetti, e si trovarono in un nuovo locale, decisamente meno formale e più accogliente. Un immenso camino al centro del muro adiacente bruciava di spente fiamme. Di fronte ad esso si allungavano divani invitanti con cuscini variopinti. Su una sedia di legno scuro stile Luigi Filippo, accanto ad una scrivania appoggiata alla parete, stava un uomo, piegato in avanti. Non si alzò, quando il Generale richiamò la sua attenzione. Si portò con lentezza una mano alla testa, svogliatamente, e poi indicò i posti di fronte, sul divano, sui quali aveva appoggiato alte pile di scartoffie. « C’è qualcosa di strano. » Iniziò, dondolando il busto a destra e a sinistra. « Come se si trattasse di un déjà vu. » Iniziò a stropicciarsi le mani, in preda all’agitazione. « Lei è la Dottoressa Simone. » Borbottò Raggetti. E quando il silenzio si protrasse troppo a lungo, precisò: « Ylenia Simone. » « Piacere di conoscerla. Io sono Ettore Manfredi. » Si grattava le nocche e negli occhi brillava sangue raggrumato di eventi passati. E fu a quel punto che Ylenia ricordò: Ettore Manfredi aveva lavorato al caso, due anni prima, come coordinatore. Era lui il corrispondente con il quale aveva scambiato un paio di lettere e del quale aveva letto un fascicolo quando, da Roma, si interessò agli omicidi di Reggio Emilia. Non che avesse avuto molto tempo, in tale occasione, e del resto aveva potuto visionare solo un paio di cartelle, ma il nome di Ettore Manfredi non le era sfuggito. « Mi parli di questo serial killer. » Lo incalzò Ylenia. « La precisione con la quale estrae i propri trofei, i globi oculati, dal corpo delle vittime fa pensare ad una preparazione medica, e all’uso di attrezzi specialistici. » Iniziò l’uomo, con un automatismo tale per cui pareva avesse preparato a lungo quella descrizione. O come se l’avesse pronunciata molte volte. « Le indagini, al tempo, si erano pure ristrette ad una manciata di nomi, ma nessuno in particolare mostrò cedimenti e tutti presentarono alibi inattaccabili. C’è da ricontrollare la documentazione, e le deposizioni, ma così, su due piedi, le voglio dare due nomi. Angelo Zucchelli, infermiere in una clinica privata fuori città, nella quale era stato curato il padre della prima famiglia vittima dell’enucleatore, e poi Franco Villani, veterinario di Modena. Hanno trovato strumenti chirurgici ed un lettino operatorio davvero poco professionale nel suo scantinato. Entrambi di grossa corporatura, caratteristica coincidente con le rilevazioni sulle scene del crimine. » Un tic violento delle labbra di Manfredi fece sospettare ad Ylenia qualche screzio con uno dei due. O con entrambi. Avrebbe ricontrollato le carte. « E per quanto riguarda la vittimologia? » Adesso era Ylenia che si tormentava la fronte. Non riusciva a pensare con lucidità, perché vedeva sé stessa, derisa da un volto nella folla. « La scelta delle vittime è molto specifica. Si trattò sempre di famiglie che abitavano in villette e case fuori dall’abitato urbano. Ogni nucleo familiare era di buono stato economico e con almeno un genitore assente durante tutto l’arco della giornata lavorativa. » « Due volte su tre era il padre, nell’ultimo entrambi. » Aggiunse il Generale. « Sì. » Confermò Manfredi. « Lo studio che il serial killer fa dei tempi e dei luoghi nei quali concretizzare le proprie fantasie è assoluto. E’ ossessivo. Durante le torture, spogliava ogni vittima per evitare le macchie di sangue poi, una volta uccise, le rivestiva ed infine ripuliva pazientemente le stanze, dopo l’aggressione. » La schiena di Ylenia venne attraversata da una scarica fredda, un paio d’occhi che le studiavano le vertebre e si infilavano sotto le costole. Due anni è un periodo di raffreddamento troppo lungo, per un assassino seriale. E se dunque aveva retto così a lungo, come ignorare la possibilità che l’arrivo in città di una famosa psicologa criminale non avrebbe potuto risvegliare il suo ego distorto, per fronteggiare la minaccia a viso scoperto. Lui, come un demone oscuro nella folla, che sghignazzava alla visione dell’eroina cieca, del messia idiota, su un palco illuminato, attorniata dal buio della sala, dalla nebbia densa degli accadimenti al di là della quarta parete, la quale gesticolava, ignara, dell’unica verità che lui, unico, lì di fronte, conosceva. Era entrata nel suo territorio di caccia, oltre le linee di salvaguardia. La donna provò un cocente senso di rabbia nei confronti di sé stessa, ma si aggrappò alla propria maschera, ineffabilmente concentrata, nascondendo il digrignare dei denti. Cercò di calmarsi, segnò qualche appunto sul blocco note e domandò ancora: « Segni di effrazione? Come entrava in casa? » « Il suo modus operandi era estremamente semplice. Si introduceva in casa tramite un qualche artificio, si può supporre qualche menzogna appena abbozzata, dato che non abbiamo mai trovato segni di effrazione. Poi aggrediva l’unico genitore presente. » « Quando c’era. » Sottolineò il Generale. « Esatto. Lo aggrediva con una pistola di piccolo calibro ed in questo modo poteva immobilizzarlo. A quel punto legava pure i figli, impietriti di fronte alla scena, e li chiudeva in camera, costringendoli a non parlare. Non li imbavagliava. » « Perché preferiva mantenere il potere con la minaccia, in caso contrario, di ucciderne il genitore. » Sussurrò Ylenia. Poi alzò la voce: « A quel punto poteva iniziare a realizzare le fantasie feticistiche su cui elucubrava da tempo, le quali si componevano di lunghe torture, compiute legando le vittime ai polsi ed alle caviglie con funi ed una sola volta con manette, trovate sul posto, e, soprattutto, varie pratiche di soffocamento. Questo continuava per ore. Non stava, infatti, solo giocando con le proprie vittime. Stava anche attendendo e pregustando il confronto che più lo stuzzicava ed eccitava, quello con il capo-famiglia. Secondo i rilievi, poteva rimanere anche un intero pomeriggio. Quando poi il padre, o come nell’ultimo caso entrambi i genitori tornavano a casa, usava un ostaggio per annichilire ogni loro reazione. E ricominciava daccapo, per l’ultima volta, il suo rituale di tortura e soffocamento. » « Proprio così, Dottoressa. Vedo che ha studiato il caso. » « Si tratta presumibilmente di un uomo dai 35 ai 40 anni. Non dubito abbia rapporti familiari esteriormente normali, ma che nascondono violenze domestiche ed insoddisfazione, derivante da una pregressa condizione familiare multiproblematica. Se è sposato, è difficile pensare che la moglie non sappia niente. E’ piuttosto probabile sospetti qualcosa, senza però rivelarglielo. Ha di sicuro esperienza di piccoli furti e vandalismo. Al lavoro è però preciso e coscienzioso, c’è anche da credere sia tenuto in buon conto fra i colleghi. Si deve trattare di un lavoro nel quale possa permettersi lunghi periodi di assenza, quindi con turni o magari spostamenti all’estero. » Si infilò la biro fra i denti, rivalutando i propri appunti con fare meticoloso ed esacerbata attenzione. « Ho ricordato qualche particolare, sì. Il resto è profilazione. Ed abduzione. » Assicurò con una certa modestia. « Dovreste ricontrollare i vostri sospettati, casomai qualcuno corrispondesse alla… » Qualcuno bussò alla porta già aperta, per attirare la loro attenzione. Si trattava di un uomo di bassa corporatura, ed una calvizie incipiente. Il sorriso vago, minato da baffi scuri ed un mento cadente. « Ho finito il mio lavoro. Ora potete vedere i corpi. » Si trattava del medico legale, il quale li volle accompagnare personalmente nella sala principale, dove erano stesi i quattro cadaveri. Lungo il corridoio, vennero raggiunti da un agente che annunciò la presenza all’esterno del Dottor Giacomo Sartori, dell’Ospedale Santa Maria, il quale aveva chiesto di poter partecipare alle indagini, da consulente esterno. Ad Ylenia quel nome parve familiare, ma nella sua testa si confondevano ora i nomi dei sospettati, ora quelli delle vittime. « Fatelo passare e conducetelo alla Sala. » Ordinò il General Raggetti, indicando un punto, nel buio di fronte a sé. Lì stava una porta chiusa, che si confondeva nell’ombra. Quando l’uscio venne spalancato, la luce solare piombò nel corridoio, stampandosi nella parete a fronte. Entrarono uno ad uno, in un locale largo ed areato, il soffitto si era arrampicato sopra due serie di semi-colonne che si ricorrevano alle due pareti più lunghe, intervallando esposizioni di nature dipinte e reali, queste ultime attraverso finestre trilobate di gusto goticheggiante. Un orologio a pendolo tocchettava i secondi esasperando il silenzio, carico di nervosismo. Li guardava con l’unico occhio del tempo, testimone rumoroso ed indifferente agli avvenimenti del giorno prima. Di fronte al suo legno d’ebano, riflesso nel vetro del quadrante, l’uomo che stavano cercando aveva compiuto la sua strage e realizzato i suoi sogni deviati. Ed ora quattro forme che furono esseri umani mordevano il telo bianco che li ricopriva, tenendoli lontani da sguardi indiscreti, rispettosamente, e brutalmente. Nel salotto si muovevano altri agenti della scientifica del R.I.S., qualcuno si scambiava opinioni ma lo faceva a bassa voce, timoroso. Il Capitano Manfredi fu il primo a svellere il silenzio, andando subito al punto: « E’ lui? » Il medico legale annuì, con tristezza. « Le ferite post-mortem, l’asportazione dei globi oculari, i segni delle torture, la posizione dei corpi, è tutto compatibile. La prima a morire è stata la donna, poi i due bambini, ed infine l’uomo, strangolato con una cravatta, che ancora indossa. Alcuni particolari del modus operandi non erano stati divulgati alla stampa, due anni fa. Il taglio a croce all’altezza del petto delle vittime di sesso femminile, ad esempio. Mancano ancora esami più specifici, ma non sarò affatto stupito di scoprire nel sangue una forte di dose di Sinilcolina. E’ lo stesso farmaco che usava l’enucleatore, due anni fa. Usato in modo improprio, provoca il completo blocco muscolare lasciando i pazienti paralizzati, ma perfettamente lucidi e vigili. Ci sono però un paio di cose che, in un primo momento, non avevo notato. C’è estrema imprecisione nell’esecuzione iniziale. Mi spiego meglio. Come dicevo, i segni sul corpo morto sono compatibili all’enucleatore, e sono ben delineati e definiti. Tagli netti. Ma la mano che ha asportato gli occhi, operazione compiuta quando la vittima è ancora viva, paralizzata dalla Sinilcolina, quella pare essere una mano da principiante. » « E questo come se lo spiega? » Intervenne Manfredi. « Non ne ho idea. Può darsi sia dovuto al lungo tempo di inattività. » « E l’altra questione? » « La madre pare essersi difesa. Ho trovato della stoffa sotto le sue unghie. » « A parte questo, su cui lavoreremo, ha dubbi sull’identità del killer? » « Non molti. E’ lui. » Ylenia notò le nocche del Capitano sbiancarsi. Divenne pallido in viso e strinse i denti. Se non fossero stati raggiunti dall’agente con cui avevano parlato in corridoio, è probabile sarebbe esploso in uno scatto d’ira. « Il Dottor Sartori è qui. » Disse quello. « Fallo entrare. » Venne introdotto nel salone un uomo di portamento fiero, nonostante una andatura leggermente claudicante, come se il fianco destro fosse parzialmente paralizzato. I suoi capelli biondi erano spettinati, eppure nel complesso davano il senso di una estrema cura d’immagine, assecondata da un viso ben teso, senza ombra di barba o baffi. Mettendo piede nella stanza, non fece molto caso all’ambiente. Dedicò invece un momento d’attenzione al personale lì presente, come se li stesse schedando, e giudicando. Ylenia notò un dettaglio, che la fece preoccupare: i suoi occhi. Azzurri, e glaciali. Non si posarono mai sulle salme coperte. Come se non volessero guardare. Come se si fossero imposti di non farlo. Se ne domandò la ragione. « Non che sia un buon giorno per fare la sua conoscenza, Dottoressa Simone. » Disse quello, prendendola alla sprovvista. « Ad ogni modo, io sono il Dottor Giacomo Sartori. » Ylenia si mosse per stringere la mano di quell’uomo così sicuro di sé, pur sapendo che quella esasperazione nascondeva al contrario una forte incertezza, forse addirittura una accecante paura. Lo poteva riconoscere dai movimenti slanciati, ma sempre piegati all’indietro. Teneva la testa un poco infossata fra le spalle, ed aveva l’abitudine di strofinarsi le mani. E poi quella anormalità, quello screzio del comportamento, di non guardare le vittime, di non guardare quei teli bianchi. « Mi dica, lei cosa ha a che fare con l’indagine? » Fu Raggetti a rispondere per lui: « Lui è il nostro supertestimone. Ha visto in faccia il serial killer. Che conferma la deposizione di Manuela Libisi, la baby-sitter che lavorava per l’ultima famiglia vittima del serial killer, i Montanari. Loro sono gli unici che hanno potuto darci indicazioni per l’identikit. E sono state fonti preziose per le indagini. » A quella risposta, molti dei tasselli e degli interrogativi che avevano aggredito la mente di Ylenia si misero a posto. Non guardava le vittime in conseguenza del trauma vissuto in prima persona: non aveva la forza di farlo. Mentre il generale Raggetti le parlava, il Dottor Sartori si avvicinò ad Ettore Manfredi, nonostante la reciproca formalità era evidente l’amicizia che li legava. Si sorrisero e si strinsero la mano con calore, sebbene su entrambi veleggiasse uno spiffero di tristezza. « Dunque è lui? » « Non ho molti dubbi a riguardo. Se vuoi dare un’occhiata. Te la senti? » Sartori parve recalcitrante, all’idea, ma decise comunque di andare. Scrollò le spalle, come se avesse deciso di liberarsi dall’antica paura, almeno per un momento, e si avviò con il capitano in direzione delle salme. Ylenia colse l’occasione per interpellare l’agente che lo aveva accompagnato: « Qualche altra traccia, sulla scena? » « Qualcosa che ci ha stupiti, Dottoressa. » Rispose quello, adocchiando un bicchiere già schedato e tenuto in una cassetta di plastica. « Abbiamo trovato un’impronta. L’enucleatore era un maniaco dell’ordine. Non si sarebbe mai fatto sfuggire qualcosa del genere. » « E’ passato molto tempo dall’ultimo omicidio familiare, agente. » Spiegò Ylenia. « Con un periodo di raffreddamento così esteso, e non considerando l’ipotesi che abbia continuato ad uccidere altrove, si possono vagliare molte ipotesi: può aver perso la mano, oppure era in preda ad un nuovo stimolo che, a distanza di così tanto tempo, gli ha fatto perdere il consueto controllo. » « E allora, dove è stato fino ad oggi? Che ha fatto? » « Andremo alla ricerca di casi insoluti nelle Province di Bologna, Parma e Modena, e poi ancora oltre. Ma difficilmente troveremo qualcosa. Un caso di enucleazione fa un certo scalpore, come può immaginare. D’altra parte, » continuò, fingendo una compostezza che non rispettava lo slancio interiore « è probabile fosse in carcere per altre motivazioni, o che fosse menomato. O ammalato. » Un breve urlo di terrore la fece sobbalzare. Alle sue spalle, il Dottor Sartori aveva afferrato le spalle dell’amico, sudava vistosamente e pareva respirare a fatica. Manfredi, intanto, cercava di calmarlo continuando a ripetere: « Non sono loro, Giacomo. Non sono loro. » Ylenia era convinta che avrebbe ottenuto molte informazioni da quell’uomo, anche se affrontare l’argomento le avrebbe richiesto tatto ed accortezza. Sfilò dalla tasca posteriore dei pantaloni il blocco note e segnò alcune domande che avrebbe dovuto assolutamente porre. Si offrì dunque di accompagnarlo fuori, a prendere aria. Nessuno si oppose, mentre il General Raggetti ed il Capitano Manfredi tornavano al lavoro, confrontando i casi e cercando qualche nuova evidenza circa l’identità dell’assassino. Nonostante tutto, e nonostante questo, l’unica certezza rimaneva la solita: l’enucleatore aveva ripreso ad uccidere. All’esterno il tempo si era fatto più piacevole, ed il vento parve lenitivo per il dottor Sartori, il quale si concesse un momento per riprendersi, appoggiando la schiena all’ombra di un platano. Quando ormai era evidente i suoi incubi diurni si fossero sfilacciati ed avessero perso consistenza, fece un cenno ad Ylenia affinché la raggiungesse: « Venga, la prego. Ho idea che non mi abbia portato fuori solo per premura. » « E’ decisamente fuori regolamento far partecipare alle indagini, dall’interno, un sopravvissuto. » Non che Ylenia sostenesse fosse un errore, nel caso presente, ma voleva anche mettere in chiaro la questione. « Io e Manuela, assieme ai nostri parenti ed ai parenti delle vittime, abbiamo istituito una Associazione. Di fronte alla lentezza delle indagini, alla mancanza di giustizia, abbiamo lottato affinché non si dimenticassero i volti ed i nomi di chi oggi non vive più, a causa di quel mostro deviato. » La sua voce si fece più grossa, e lentamente prese ad ansimare. Rabbia concreta, cocente. Una rabbia che fa paura, si disse Ylenia. E lo comprendeva. « Quindi lei si è offerto per… » « Perché non saremo soddisfatti fino a quando quell’uomo non sarà dietro sbarre d’acciaio. » Il vento si fece silenzioso, così come lo sbattere delle suola sul selciato che circondava la fontana. Qualche rumore fra i campi, lo stormire lieve dei rami e lontane auto, ma il resto si spense. O si lasciò morire. « Le vorrei chiedere di raccontarmi cosa accadde due anni fa. Mi dica qualunque cosa le dovesse venire in mente. Ogni particolare, lo sa bene, potrebbe risultare importante. » « Sono stato salvato dall’arrivo fortuito di Rota, Filippo, il mio vicino di casa. Suppongo abbia spaventato quell’uomo. » I suoi occhi si piegarono verso destra, e la sua espressione cambiò, deformandosi in una pietosa smorfia. « Per quell’accidente non atteso dovette sentirsi spaesato e decise di fuggire. Mi hanno detto fosse il suo primo omicidio. Era inesperto. Ma ormai, l’inesperto, aveva già potuto compiere il grosso del proprio lavoro. Aveva già distrutto ogni frammento della mia vita. Mi trovò agonizzante, con un cappio attorno al collo, i polsi e le caviglie legate dietro la schiena. » Sbuffò, e costruì un sorriso ironico: « Dissero che l’uso di quel particolare tipo di corda sarebbe servito sicuramente a trovarlo. » Questa volta rise di gusto, per quanto ogni accesso rimbombasse in un’anima vuota e frustrata. « Non ne aveva usata abbastanza, evidentemente. » « Ha riconosciuto il modus operandi dell’enucleatore sulle vittime? » « Ho visto ammazzare lentamente mia moglie. Di fronte ai miei occhi. Ogni cosa che ha fatto a lei, l’ho vista riprodotta su quei corpi. E’ lui, dottoressa. » Divenne improvvisamente pallido, si voltò in fretta e vomitò. Ylenia si sentì in colpa per averlo costretto a rivivere tanto dolore. Scelse di mantenere il controllo della situazione appoggiandogli una mano sulla spalla. Il Dottor Sartori parve non accorgersi del tocco, ma ora respirava più lentamente. Rizzò la schiena e continuò, guardando la pianura di Casalgrande, piena di fabbriche per la produzione di ceramica, alte torri da cui veniva sputato fumo bianco, movimento e velocità sulle strade. Il mondo crollava a pezzi, ai suoi occhi, ma nessuno, a parte quelle poche persone lì attorno, ne era cosciente. Sospirò un paio di volte. Ed iniziò: « Adorava essere guardato da qualcuno mentre compiva il proprio atto. Adorava che io lo potessi guardare in faccia. Mia moglie fu la prima ad essere uccisa. Quell’uomo continuava a tranquillizzarmi, diceva che era lì perché in fuga, e che non aveva alcuna intenzione di far loro del male. Ma io avevo già notato i segni delle torture sul corpo di mia moglie, di Alessia. Lei stava ferma. Mi spiegò che le aveva iniettato della Sinilcolina. Pareva, in ogni caso, volesse che ci sentissimo a nostro agio. » Ylenia si disse che una tale ambiguità di comportamento sottostava piuttosto ad una incoerenza di fondo, la coscienza di quell’uomo era ancora divisa fra ciò era giusto e ciò che era sbagliato. Nemmeno lui desiderava fare quel che stava facendo. Ne era, piuttosto, costretto. « Ricordo parole confortanti, » aggiunse Sartori. « E parole d’ira per sé stesso. C’era stato addirittura un momento in cui quell’uomo si era messo a ripulire casa, a metter via corde e nastri isolanti dentro la sua grossa borsa nera. Pareva intenzionato ad andarsene, e fece anche per aprir la porta d’ingresso che dava sul salotto, dove ci aveva trascinati entrambi. Ma a quel punto dovette scattare qualcosa. » Ylenia scosse la testa, stringendosi il setto tra indice e pollice. Quell’attimo estremo aveva tenuto in scacco una vita, lì cambiarono tante cose. « Tornò indietro, infilandosi i guanti, e strangolò mia moglie fino a farla svenire. Io gridavo, e gli dicevo di smetterla, ma era come se non mi udisse più. » Ylenia immaginò l’impotenza di quell’uomo, e la maniera subdola con la quale il serial killer aveva, volontariamente o involontariamente, giocato con lui. Aveva impostato la relazione con le vittime nella stessa maniera con la quale le aveva uccise: ispirandone una tragica speranza di uscirne vive, scegliendo poi quando ucciderle davvero. Il potere assoluto di vita e di morte. Il medico, mentre Ylenia iniziava a stringergli la spalla, continuava confusamente a spiegare la forza dell’impeto, la morte della moglie, le labbra bluastre ed i capillari che scoppiavano. Poi ovviamente il ricordo peggiore, un’oscurità d’incubo: il momento nel quale l’assassino tirò fuori dal borsone un enucleatore medico ed iniziò l’ultima firma della propria opera. « Nonostante questo, » gli tremava la voce e dovette mordersi le labbra più volte, prima di poter continuare, « ne riconobbi alcuni tratti di inesperienza: il tremolio della mano, in particolare, che lo faceva imprecare a più riprese. Forse l’emozione, forse la paura. Quando quell’uomo ebbe… » balbettò la parola « finito…non ne rimase particolarmente soddisfatto, e sbuffava con aggressività. Immerse i due occhi in un barattolo pieno di formaldeide e senza degnarmi di uno sguardo, che fosse d’odio, di compassione, o d’intesa che ne so, la uccise, soffocandola. Poi, continuando ad ignorarmi, si diresse altrove. Ed io sapevo dove. Ripresi a lottare con forza, e mi ferì profondamente le mani. Gridai. Beffardo, lui, si sporse dall’angolo del corridoio e mi disse che se avessi continuato ad urlare avrebbe ucciso i miei figli. Ormai avevo capito il suo gioco. Quindi urlai più forte, lo insultai. Lui rispose che mia moglie se l’era cercata. Disse che avevano una relazione e che tutto questo era accaduto per colpa sua. Era lì per punirla e per liberare me. Capisce, Dottoressa? Liberare me. A causa della sua infedeltà nei miei confronti e dal momento che, da poco, aveva lasciato lui. Nonostante sapessi perfettamente si trattasse di una menzogna, decisi di lasciarmi convincere. La situazione era più grande di me e scelsi di sperare che non avrebbe ucciso i miei bambini se io avessi smesso di urlare. O se almeno avessi fatto finta di credergli. Non avevo logica sulla quale fare affidamento, era una situazione surreale, violenta. » Nella mente di Ylenia, seguendo il fiume di parole di quell’uomo, si rincorrevano mille, ed altre mille testimonianze, tra loro così simili. Una giornata noiosa, iniziata con un caffé qualunque, di fretta, ed un bacio senza pensieri, che veniva poi travolta, rovesciata, in una maniera imprevedibile, impossibile. Surreale, aveva detto bene. « Portò i miei figli in salotto. E di nuovo, perdio, di nuovo ricominciò quella tragicomica commedia degli orrori. Mi spiegava che sarebbe andato tutto bene, e poi si prendeva a schiaffi, e diceva che se ne sarebbe andato e che voleva esser perdonato di tutto, ma poi rimaneva, prendeva coraggio, cambiava idea, ed infine strappò loro gli occhi e scelse di ucciderli entrambi. » Ora stava sonoramente singhiozzando. « Sa una cosa, dottoressa? Non rimase molto dell’uomo che era tornato a casa per riabbracciare i propri figli e la propria moglie. In quella casa venne ritrovato un relitto, un’anima in pena. » Si girò e guardò Ylenia negli occhi. Glaciali, di nuovo, ma appannati, e dispersi. « Non ero più io. » Nonostante il gran numero di persone sottoposte ad un così forte stress, la donna si sentì ammirata di fronte a quella persona. La maggior parte si ritira in una solitudine che funga da nascondiglio, mentre lui era lì, sulla scena del nuovo crimine. Conscio dei propri limiti, delle paure represse, ma deciso a continuare l’indagine. Anzi, a far continuare l’indagine. A qualunque costo. « Ricorda qualche altro particolare, dottore? » « Ricordo la sua meticolosa pulizia. Denudò mia moglie, ormai morta, prima di intagliarle la carne. E lo stesso fece con i miei figli. Li ricoprì una volta finito. Dovette ferirsi un dito, perché ad un certo punto lo vidi trasalire e lanciar lontano il bisturi. Aveva un bisturi, il bastardo. » Si concesse un altro momento, nel quale parve scorrere immagini ed avvenimenti. Scosse la testa, ripetutamente. « Non ero molto lucido, in quel momento. Avevo perso ogni asse della mia esistenza. E dunque ho come flash accelerati, rallentati. Immagini sfocate, altre perfettamente nitide. E spaventose. La sua alienante morbosità per l’ordine era portata all’eccesso. Puliva tutto. Portava i guanti, eppure puliva tutto. Pettinava i capelli e, per quanto possibile, limitava gli ematomi. Preferiva intagliare la carne morta, affinché non sanguinasse. Forse per questo, la ferita che si era provocato lo fece uscire di senno. Strappò un lembo dal vestito di mia figlia, e lo strinse attorno alla mano sanguinante. Afferrò il telecomando del televisore e lo scagliò contro la parete, poi un vaso di ceramica. Credevo ormai fosse finita. Quando riaprii gli occhi, era fuggito in cucina. Per medicarsi credo. Accanto a me stava un libro, con una grossa macchia di sangue. » « Un agente, all’interno, mi ha detto che è stato trovato un bicchiere con una impronta. Sangue. » A quella notizia, gli occhi del medico si illuminarono. Poi Ylenia sentenziò: « Un errore. Come la prima volta. » Sartori si massaggiò il mento e fece cenno di sì, con la testa, continuando a mantenere quella strana espressione di soddisfazione. Disse, poi: « Allora credo abbiate un ottimo punto di partenza. » Anche Ylenia sorrise, confermando compassionevolmente quella volontà estrema di giustizia. Quindi il medico scartò di lato, salutando qualcuno. Si mosse di un passo, ma poi si bloccò. Girò il fianco in direzione di Ylenia e le sussurrò: « Come avrà saputo, molti della nostra Associazione erano alla presentazione del suo libro. C’ero anche io. Devo dirle che è stata molto poco esauriente. Ma sono convinto farà del suo meglio per assecondare la sua fama, giusto? » Quindi voltò le spalle e, zoppicando, raggiunse una giovane ragazza che stava appoggiata ad una bianca Renault Megane dall’altra parte della piazzola. * * * Passarono dodici ore interminabili. Ylenia aveva valutato ogni possibilità e riletto lunghi fascicoli, dalla testimonianza di Filippo Rota a quella di Manuela Libisi, eppure continuava a sentirsi circondata da vicoli ciechi, mille strade che finivano nel nulla di fatto. Aveva ripreso in mano cartelle cliniche, trasalendo nello scorrere quella del Dottor Sartori, sopravvissuto ad una notte di torture. Eppure qualcosa doveva per forza esserle sfuggita, qualcosa di palese, qualcosa di evidente. Mentre si scervellava, il capitano Manfredi girava per la sala, e continuava a ripetere che non avrebbe permesso a sé stesso di fallire una seconda volta. E forse per una combinazione di illogicità, furono proprio quelle parole a reimpostare un nuovo punto di vista con il quale osservare la vicenda. Non fosse stato per quello, e per la sua naturale tendenza ad affrontare i dubbi a viso scoperto, Ylenia non avrebbe nemmeno preso la decisione di affrontarli da sola. Continuando a studiare senza interruzione le cartelle sui casi dell’enucleatore, infatti, in maniera sempre più chiara, intravide alcuni particolari che non riusciva a far combaciare. Come quando si osserva ossessivamente una figura, una linea, ed in qualche punto essa ci pare scomposta in un dettaglio. E più si guarda quel dettaglio, più esso diventa chiaro, fosse anche soltanto un difetto ininfluente, esasperato perché ricercato. Nella stessa maniera, Ylenia si accorse di qualcosa che riguardava un senso di ripetizione nell’esecuzione generale, qualcosa di artificioso nello schema degli avvenimenti. La posizione dei corpi, ad esempio, pensò Ylenia. L’assassino sceglieva la posizione in cui lasciare i corpi, lo aveva sempre fatto, era una pratica rituale, probabilmente qualcosa che riguardava una sua deviata esperienza di rapporti interpersonali, e faceva dunque parte della sua firma, ma nell’ultimo episodio la posizione è studiata oltre il necessario. Non si trattava solo di ritualità, era più qualcosa come riproduzione mentale. Artificio. E questa sensazione si propagava ad ogni livello, da quello, semplice e meno controllato, dell’omicidio, a quello, più freddo, della pulizia dei corpi e dell’ambiente. Ylenia si mise gli auricolari e cliccò il tasto play del lettore. Serpeggiando fra le note di un pezzo dei Radiohead, cercò di ricatalogare quello che non trovava chiaro. Si trattava ancora di una visione preliminare, ma sapeva di poter contare su anni di esperienza. E doveva cominciare proprio da questa, da quello che le aveva insegnato: doveva iniziare dal profilo. Maschio, dai 35 ai 40 anni, corporatura massiccia. Qui iniziano le discrepanze. La madre aveva tentato di difendersi. Cosa aveva detto il medico legale? Stoffa sotto le unghie. Stoffa. E’ ipotizzabile una maschera. Un passamontagna. Questo contrasta profondamente con il modus operandi. Nemmeno con la famiglia Sartori, ancora inesperto, pur nel caos delle proprie pulsioni, aveva permesso a sé stesso di perdere il controllo sulla madre ed i figli. E nemmeno sul dottor Sartori. Aveva imposto distanza e definito i rapporti di potere. Era questo che lo eccitava. La propria corporatura robusta di sicuro aiutava in questo senso. E si mostrava in volto. Qualcosa ora lo fa vergognare? E, nonostante la presunta corporatura, perché allora la madre ha cercato di difendersi? Forza della disperazione? Avrebbe messo in pericolo la vita dei propri figli, in questa maniera. Questa è una deviazione profonda dal profilo. Che altro c’è? Le ferite. Le ferite sono chirurgiche, decise. Quelle post-mortem. Cosa, dunque, è intervenuto per rendergli difficile l’esportazione dei globi oculari? Tremava? Provava compassione? Paura? Niente di tutto questo. E’ uno psicopatico, che non prova rimorso per le vittime e tutto ciò che gli altri credono possa provare è fine dissimulazione. Allora forse il periodo di inattività. E’ una soluzione forzata. Può essere stato menomato, da qualche malanno, e questo spiegherebbe perché sia scomparso per diverso tempo, ma allora nemmeno le ferite post-mortem dovrebbero essere così precise. E’ come se una volta compiuto l’omicidio, avesse meno remore a ferire il corpo della vittima. Vittimologia. La scelta della vittimologia è assolutamente in linea con l’assassino. Famiglia benestante, in una villa isolata. Il rapporto dice che la moglie è stata uccisa per prima, quindi i due figli, come da prassi. Ed infine il padre. Particolare curioso: l’uso della cravatta per soffocarlo, lasciata sul posto. Continuano ad esserci piccole incongruenze, che si rincorrono, sussurrando qualche novità nascosta. E’ tutto come due anni fa, ma pare profondamente diverso. E se il profilo fosse sbagliato? Ne dubito. L’ipotesi di un copycat va scartata, per via dell’estrema precisione con la quale i delitti sono stati commessi. Precisione assoluta di riproduzione. Riproduzione. Quella parola riverberò nella sua testa per qualche secondo. Una macchia di sangue su un bicchiere, e su un libro. Una cravatta, ed una corda. Una maschera sul viso, ed il viso scoperto. E la perfetta conoscenza dell’ordine, della mentalità, del comportamento dell’assassino. No. * * * Ylenia aveva salito quegli scalini concentrandosi sulla follia della sua ipotesi. Ed ogni passo era una conferma del contrario, perché in fondo ne aveva vissute troppe e ne aveva viste anche di più. Si fermò di fronte alla porta, e suonò il campanello. * * * « Non posso permetterle di rovinare ciò per cui ho scelto la via della dannazione. Non oso permetterglielo, mia cara. Lei non ha idea di cosa abbia significato tutto questo. » « Ed io non posso permetterle di continuare. » « Questo ci pone in situazione molto problematica. La chiamerei di stallo, se non fosse che entrambi stiamo meditando qualcosa di poco piacevole per l’avversario. Allora, mi dica, lei cosa avrebbe fatto? » « Avrei continuato sulla strada giusta. Scegliere, bè, scegliere questo è folle. » « E’ folle mancare l’impegno. Dimenticare la morte alle spalle. Ho preso l’incarico di mantenere sveglio l’interesse. Il suo arrivo, mia cara, ha scardinato un portone già malandato. Certo, la sua inopportuna leggerezza è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, ma diciamocelo, avevo guardato nel buio molto tempo fa e non ne sono mai uscito. Lei ha posto fondamenta sulle radici della terra stessa e mosso le parti dell’onda che alle spalle già ha un mare intero. E allora? Ci siamo capiti? Io ho dovuto fare la mia parte. Ho imbracciato il fucile, se vuole, o il forcone, e sono andato alla ricerca. Stai ferma! » « Mi lasci! » « Non ti muovere! Oh ma che scelta terminologica ingegnosa. Stai ferma! Ah. Ah. Ah. Questo sì che significa giocare con le parole. Brava. Ho qualche flacone di Sinilcolina, nel mio ufficio. Ma, giusto per sicurezza, li ho riempiti di soluzione salina. Dicevo. Dicevo qualcosa? Ah, sì. Sono andato alla ricerca. Ho studiato. Ho guardato gli scantinati e le mansarde, di teste vuote, beninteso, ed ho ascoltato compromessi claudicanti. Claudicanti, sì. Ah, a proposito, è stata lei a farmi questo. Non sono mai stato capace nell’incutere timore, a quanto pare. Dicevo. Dicevo qualcosa? Sì, certo. Compromessi claudicanti. Ho visto la carne di vittime innocenti spolpata da fogli di carta, da titoli da prima pagina. Sa, io non trovo sia giusto. Trovo sia piuttosto irrispettoso. E’ sangue spiaccicato, un po’ più nero senza dubbio, ma fluido vitale, a suo modo. Io non trovo sia giusto. Trovo sia decisamente irrispettoso. Che bastardi birbanti. Giornalisti che si affamano dietro crimini. E per cosa, poi? Per niente, per l’oblìo. Mi allunghi quella tazza di latte, la prego. No, lasci fare, mia cara. Lasci fare, ho detto. La prendo da me. E sa per cosa lo fanno, poi? Per lasciar passare il tempo. E nel mentre sa cosa facevo io? Venivo assassinato. Crede che io possegga compassione? Sono ad un passo dal baratro. Sì, ma dalla parte del vuoto. Ah. Ah. Ah. Questa mi ha sempre fatto ridere. E sa chi mi ci ha spinto? La gente, tutta. Tutta quanta. Ho raccolto qualche povera vacca grassa per il sacrificio rituale, assieme a me dovevano mostrarsi lacrime drammatiche, terribile dolore. Ed io con loro, uomo normale, imperturbabile e monotono. Devo aver abbracciato i miei figli un paio di volte in tutta la vita. E dopo? Dopo ho pianto anche piscio. Ah. Ah. Ah. Per un po’ di compassione? Perché mi si confortasse? No, io volevo il cuore di quell’uomo fra le mani. E quello di ogni componente della sua famiglia. Ma ragionavo ancora per moralità biforcute. Sibilanti regole buone. E dunque piangevo perché sotto sotto era proprio quello che desideravo, e non desideravo desiderarlo. Ora capisce? Nessuno può vincere il male senza il male. Ma come trovare un uomo scomparso? Ha detto bene, lei. E’ stata fin troppo chiara: probabilmente è morto. E a me cosa resta? Un coitus interruptus? La giustizia privata del tempo o di qualche dio? Non sono mai andato d’accordo né con uno né con l’altro. Bisogna allora che sia la memoria a non morire mai. Voglio che la mia perdita sia immortale. E che per questo motivo siano ispirati a continuare a cercarlo. All’infinito. Perché, chissà, magari, da qualche parte, quell’uomo si è costruito una tana e lì ancora si nasconde. Ed io non posso trovarlo, ahimè. Dunque l’ovvietà era a portata di mano, una volta polverizzato il mio senso sociale: posso fare il suo lavoro, affinché persone meno intelligenti di te, posso darti del tu, cara?, continuino sulla strada sbagliata, imboccando inavvertitamente, magari, quella giusta. Ma tu. Anzi, no, io. Io sono stato uno sciocco. Sapevo che la prima volta sarebbe stato difficile. Ma non così difficile. E’ difficile enucleare una persona che non ti ha fatto alcunché, lo sai? O soffocarla. Mi sono lasciato sorprendere. Non riuscivo a guardarli. Non volevo che mi guardassero. E poi, all’improvviso, l’idea della cravatta. Del resto, io mi ero salvato. Ed avevo permesso che le forze dell’ordine, in lotta contro il caos, rinvenissero la corda che mi avrebbe dovuto trascinare nel buio. La sua fune. Oh, e la macchia di sangue. La costituzione del palco scenico è diventata improvvisamente più importante della mera attuazione dell’omicidio. Doveva essere come era stato. Io avevo visto ogni cosa. Ed è così che ho fatto un passo nel buio. E nel buio cose oscure mi attendevano, digrignando denti e schioccando lingue. Ho ereditato gli incubi di qualcun altro. Ho ricostruito il suo profilo criminale, basandomi su vasta saggistica, e fra questa anche il tuo volumetto da scolaretta, ed ho fatto ogni cosa con minuzia. Ho scelto la via della psicopatia lucida, ho scelto coscientemente l’omicidio. Non trovi abbia un senso? Ho ricomposto tutto ciò di cui ero a conoscenza e ne ho indossata la maschera. Ne ho interpretato il personaggio. Ho lavorato sodo per mantenere in vita il ricordo di troppe morti. Ti sembra assurdo? Allora chiedi perché nessuno ne parli più ormai da mesi. Ecco. Sai cos’è? Ho letto troppo. Ed ora sono un serial killer da manuale. Ah. Ah. Ah. » Nella sala si fece silenzio. E poi, come note tetre, tintinnarono attrezzi metallici. E forse, però questo nessuno potrebbe testimoniarlo, il suono di qualcuno che piange.
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